Dopo le rivoluzioni dell’astrattismo e del cubismo, come riusciamo a considerare interessante ed innovativo un quadro figurativo, tecnicamente tradizionalissimo, come La casa vicino alla ferrovia di Edward Hopper?
Come ormai saprete, mi piace pormi domande e cercare di trovare una risposta così oggi, per il ciclo Un incanto di panorama, ci allontaniamo da Kandinsky (che ci ha deliziato nello scorso post) e ci dedichiamo a uno degli incontrastati maestri dell’arte americana. In particolare, ho scelto quest’opera perché la adoro e soprattutto perché la trovo significativa e rappresentativa delle idee che cercherò di esprimere. Ma direi di partire con ordine.
Edward Hopper, La casa vicino alla ferrovia, 1925

Chi è Edward Hopper (1882-1967)?
Edward Hopper nasce a Nyack, una cittadina sul fiume Hudson (sempre qui si torna, o si parte, parlando d’arte americana!), dopo qualche anno frequenta la New York School of Art e successivamente inizia a lavorare come illustratore pubblicitario. Tra il 1906 e il 1907 viaggia per la prima volta alla scoperta dell’Europa, conoscendo Parigi, Londra, Berlino e Bruxelles.
Inizia ad esporre a New York e nel 1918 è tra i primi a far parte del Whitney Studio Club, un vitalissimo ritrovo per gli artisti indipendenti.
Inizia ad ottenere un successo notevole con mostre nel 1923 e nel 1924, confermandosi uno dei punti di riferimento per il realismo americano. Nel 1933 il MoMA (Museum of Modern Art di New York) dedica a lui una prima retrospettiva, seguita da una seconda nel 1950 presso il Whitney Museum, focalizzato sull’arte statunitense.
Negli anni Cinquanta partecipa alla rivista Reality, a sostegno dell’arte figurativa, in contrapposizione all’informale, sempre più diffuso.
Come mai la casa vicino alla ferrovia è un’opera che ci incanta e che sembra avere un’anima?
Credo che questa domanda si possa ripetere per molti dei quadri di Hopper: osserviamo i suoi paesaggi e le figure silenziose e ci chiediamo cosa li rende così speciali, così affascinanti nella loro semplicità.
In questo caso, vediamo un villino con finestre eclettiche, tetto a mansarda in stile francese e portico davanti all’ingresso, delineato perfettamente dalla studiata contrapposizione tra le luci e le ombre. Non troviamo abitanti e nemmeno la porta d’ingresso, mentre la linea dei binari, che compone un inusuale primo piano, ci separa da questo edificio. I colori sono quelli primari: il giallo dei raggi di sole contrapposto all’azzurro del cielo e delle ombre, spezzati dal magistrale rosso acceso dei comignoli e da quello, più sporco, della linea ferroviaria.
Semplice ed equilibrato, minimale eppure d’impatto. Ecco, questo è il segreto del ritorno al figurativo che investe il mondo tra le due guerre mondiali.
Siamo nel 1925 e Edward Hopper in qualche modo ci ricorda la pittura metafisica, anche se è meno cerebrale e più diretto, quasi cinematografico: infatti emoziona molto lo spettatore, mentre artisti come De Chirico e i suoi colleghi piuttosto fanno riflettere e ragionare con i loro rimandi al passato.
Di fatto La casa vicino alla ferrovia è un quadro puramente figurativo, eppure ci trasporta ad un livello superiore di interpretazione, percepibile ma difficile da definire. Dopotutto la modernità non equivale unicamente a spingersi sempre più lontano o a forzare la sperimentazione; ci sono momenti in cui si compiono arditi passi in avanti e periodi in cui ci si torna a confrontare con il passato e con quello che già si conosce, interpretandolo con occhio contemporaneo.
È così da sempre e nemmeno il nostro turbinoso Novecento cambia le carte in tavola, così non è inusuale incontrare un ritorno al figurativo in questa fase, dopo l’esplosione di movimenti come il cubismo e l’astrattismo.
Eppure, quanto sono diversi i paesaggi di Hopper da quelli di Church (per rimanere nello stesso contesto) o quelli di De Chirico rispetto a Segantini?
Non siamo più nell’Ottocento, le illusioni romantiche e del positivismo ormai si sono infrante, per colpa della guerra, delle città industriali che mostrano una triste umanità e delle crisi economiche e politiche che si stanno delineando. Gli squilibri sono forti e gli artisti si chiudono inevitabilmente in se stessi, descrivendo un’interiorità caratterizzata dalla disillusione.
Di seguito riporto le parole dello stesso Edward Hopper, che descrivono quanto sto cercando di dire anche io:
Il mio scopo in pittura è sempre, usando la natura come mezzo, cercare di fissare sulla tela le mie reazioni più intime di fronte al soggetto, così come mi appare quando lo amo di più; quando il mio interesse e il mio modo di vedere riescono a dare unità alle cose. Perché scelgo alcuni soggetti piuttosto che altri, non lo so precisamente, a meno che non sia che… Io creda che possano essere il migliore mezzo per la mia esperienza interiore.
Edward Hopper, Lettera a C. H. Sawyer, 1939
Che dire, se non che le parole degli artisti sono sempre un bel modo per arrivare a comprenderli?
Mi sono dilungata abbastanza, così ora chiudo questo post con un paio di altri articoli su questo artista, nel caso non vi siate ancora stufati:
- Tre motivi che rendono Edward Hopper un grande artista
- Edward Hopper, Felice Casorati e la solitudine esistenziale
- Cape Cod: il luogo dove i quadri di Hopper diventano realtà