Può esistere un momento di magia in cui la natura cancella tutte le ombre del nostro mondo, lasciando soltanto l’amore? Oppure il nostro mondo, per com’è oggi, non lo può permettere?
Vorrei inaugurare questa rubrica sulla poesia provando a rispondere a questa domanda con una poesia che amo moltissimo e che è in qualche modo adatta a questi giorni, perché è una poesia un po’ autunnale, di migrazioni di uccelli e di luce di ottobre.
Derek Walcott – La stagione della pace spettrale
Poi tutte le nazioni degli uccelli sollevarono insieme
la rete enorme delle ombre di questa terra
in dialetti innumerevoli, in lingue cinguettanti,
cucendola e incrociandola. Sollevarono
le ombre di lunghi pini lungo pendii senza sentieri,
le ombre di torri vitree lungo le strade al tramonto,
l’ombra di una pianta gracile su un davanzale cittadino –
la rete che come la notte s’innalzava silenziosa,
i gridi degli uccelli anch’essi silenziosi, finché
non ci fu più né imbrunire né stagione, clima o declino,
solo questo passaggio di luce spettrale
che neanche l’ombra più sottile osava recidere.
E gli uomini non poterono vedere, alzando lo sguardo,
ciò che le oche selvatiche trainavano, ciò che i falchi pescatori
si tiravano dietro in funi argentee e luccicanti
nella luce glaciale del sole; non poterono udire
i battaglioni degli storni lanciarsi gridi pacifici
mentre innalzavano la rete, coprendo questo mondo
come i rampicanti di un frutteto, o una madre che stende
una garza tremante sugli occhi tremanti
di un bambino che fluttua verso il sonno;
era la luce
che puoi vedere al tramonto sul fianco di un colle
nel giallo ottobre, e nessuno di quelli che udirono seppe
che mutamento aveva indotto nel gracchiare del corvo,
nello stridio del piviere, nel gracchio che volteggia sulle braci
una così immensa, alta e silenziosa apprensione
per i campi e le città cui gli uccelli appartenevano,
sennonché era il loro passaggio stagionale, l’Amore,
reso privo di stagioni, o, dall’alto privilegio del loro lignaggio,
qualcosa di più luminoso della pietà per i senza ali
sotto di loro che condividevano buchi bui in finestre e case,
e più in alto sollevarono la rete con voci silenziose
sopra ogni mutamento, tradimento di soli che calano,
e questa stagione durò un istante, come la sospensione
tra l’imbrunire e la tenebra, tra la furia e la pace,
ma, per ciò che la nostra terra è ora, durò a lungo.
A prima vista può sembrare un testo a metà tra il visionario e l’incomprensibile, ma vorrei provare ad analizzarlo un po’. Naturalmente è una mia interpretazione e come tale va presa – magari per voi sono tutte cavolate, la poesia è il regno della soggettività ed è bella per quello. Ma prima solo due parole su Derek Walcott: per chi non lo conosce, è un poeta di Santa Lucia, che ha cantato i Caraibi in tutte le loro contraddizioni e soprattutto lo splendore della natura che li domina, e ha vinto il Nobel nel 1992. Dal mio punto di vista, è uno dei più grandi poeti del secolo scorso e non solo – ogni tanto ve ne parlerò 😉
Derek Walcott immagina che tutti gli uccelli del mondo, tutte le varie specie che cinguettano nelle loro lingue diverse, si uniscano per sollevare qualcosa che normalmente non può essere sollevato, cioè l’infinita rete di ombre che percorre la terra. Senza di esse non c’è più nulla che oscuri il mondo, non resta che una luce spettrale che nessuna ombra osa attraversare, e gli uccelli, mossi da un sentimento a metà tra la preoccupazione per i luoghi a cui appartengono e la pietà per gli umani, approfittano di questo momento di luce per invadere il mondo con una forza che non è altro che l’amore.
È un momento di pace perfetta, ma gli uccelli non emettono alcun suono e gli uomini non se ne accorgono, non riescono a vedere né sentire il cambiamento, non percepiscono nulla se non un qualche mutamento nel passaggio migratorio degli uccelli e la presenza di un sentimento più puro e luminoso ancora della pietà (in inglese questo verso è bellissimo, something brighter than pity for the wingless ones / below them, who shared dark holes in windows and in houses). Un simile atto d’amore, in un mondo come il nostro, può solo essere compiuto dalle creature che abitano l’aria, che ci guardano dall’alto e ci compatiscono, noi esseri senza ali che ci rinchiudiamo dentro le finestre e abitiamo in buchi scuri invece che solcare le infinite vie dell’aria e che in questo caso veniamo graziati dal regno degli uccelli e non ce ne accorgiamo nemmeno.
Il dono del mondo naturale, la migrazione stagionale degli uccelli che porta amore e cancella ogni traccia di oscurità, dura però solo un istante, non più del momento di passaggio tra il crepuscolo e la notte – è vero che per come è la nostra terra ora dura a lungo, ma resta pur sempre un solo istante: gli uccelli, pur unendo tutte le loro forze, riescono a sollevare le ombre solo per un attimo, forse perché le ombre del mondo sono troppo pesanti perché le forze della natura possano resistere a lungo contro di esse, o forse perché non possiamo davvero sperare che la salvezza arrivi dall’alto.
La luce che risulta dallo sforzo congiunto delle bande di uccelli è spettrale, irreale – come irreale sarebbe un mondo in cui non esistono ombre. Inoltre nel nostro mondo un momento di pace assoluta non può che sembrare soprannaturale, quasi inquietante, talmente è all’opposto della realtà, e la soluzione, se ce n’è una, non sta appunto nell’aspettare che qualcuno dall’alto cancelli l’oscurità, ma nella consapevolezza che, se mai ci potrà essere una salvezza, deve partire da noi: sono le nostre ombre e la natura da sola non può salvarci, così come non può essa stessa resistere a lungo contro il male che abbiamo creato, però può regalarci ogni tanto un momento di grazia, di amore incondizionato, e sta a noi coglierlo.

Non so se la mia interpretazione sia troppo ecologista, ma a me piace pensarla così. E a voi che ne sembra? Siete d’accordo con quello che ho scritto? Ma soprattutto, vi è piaciuta questa poesia? Spero di sì 😉