Lo sapevate che tra il Manifesto del Futurismo e la nascita della pittura metafisica passano soltanto tre anni?
Sicuramente è interessante pensare a come due linguaggi tanto diversi per soggetti, intenzioni e tecniche possano praticamente convivere in quello che è il contesto italiano del primo Novecento. Per capirci, ecco un esempio dei due movimenti:
Futurismo, rappresentato da Boccioni:

Pittura metafisica, rappresentata da De Chirico:

Direi che c’è una bella differenza, non trovate? Guardare due opere come queste mi fa capire quanto frammentato sia il nostro Paese in questi anni cruciali.
Eppure, tra le due, vedo sempre di più nella metafisica il movimento italiano per eccellenza. So che esiste e che è assolutamente importante anche il Futurismo, ma la grande differenza è che quest’ultimo movimento si è nutre e viene alimentato da idee internazionali, arrivando quindi a fare parte di un quadro di insieme più vasto del nostro semplice e piccolo Stato.
Invece questa fase della pittura italiana ripudia tutto quello che va di moda all’esterno, da Picasso agli Impressionisti e all’Astrattismo, in favore di un linguaggio che attinge a piene mani da quella che è la tradizione culturale italiana.

Parlare di pittura metafisica per me equivale dunque a parlare dell’Italia, di quell’Italia insoddisfatta prima, durante e dopo la prima mondiale, vivace ma allo stesso tempo imprigionata in un immobilismo senza tempo. Mi riferisco ad una nazione stanca di chi la governa (tanto per cambiare! N.d.r.), fatta di squilibri e stufa di quel clima di ostentata modernità che aveva caratterizzato gli anni precedenti. Un Paese nella perenne attesa di qualcosa che non si conosce, ancorato alla sua storia e senza una chiara idea di futuro.
Proprio per questo la pittura metafisica, con la sua tecnica tradizionale, con i colori mediterranei e con gli enigmi senza tempo su di me esercita un fascino profondo, arricchito dal legame con altre opere del passato che che mi fanno sorridere quando le riconosco. Amare questo movimento è un atto d’amore per la grande e fragile Italia, quella nazione tanto desiderata quanto bistrattata da chi ci ha preceduto e da chi ancora ne decide le sorti.
Come definire e comprendere la pittura metafisica?
Dopo questa introduzione vaga e spero interessante, mi piacerebbe scendere nel dettaglio, raccontare qualche bella storia sui principali esponenti e illustrare le caratteristiche di molti dipinti, però il tempo è poco e le parole scritte sono già tante, quindi vi invito a non perdere le prossime puntate in cui cercherò di mantenere questi propositi.
Prima di salutarvi voglio ancora lasciarvi una piccola pulce nell’orecchio, riportando una frase che trovo che racchiuda molto dello spirito metafisico.
L’opera d’arte metafisica è quanto all’aspetto serena; dà però l’impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità e che altri segni, oltre a quelli già palesi, debbano subentrare sul quadrato della tela.
Tale è il sintomo della profondità abitata. Così la superficie piatta d’un oceano assolutamente calmo ci inquieta non tanto per l’idea della distanza chilometrica che sta tra noi e il suo fondo quanto per tutto lo sconosciuto che si cela in quel fondo.
Giorgio de Chirico, Valori Plastici, aprile-maggio 1919.
A voi cosa fa pensare la “profondità abitata”? A me i pensieri si riempiono di fosche immagini, inizio a viaggiare lontano con la mente e con i ricordi…Oltre la linea d’ombra, per così dire, nel significato più introspettivo del termine.