“Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.“
Italo Calvino, Le città invisibili
Oltre ad amare Le città invisibili, adoro questa frase: mi ha sempre affascinato, anche quando ancora non ne avevo colto il significato che credo di capire ora. Sono convinta che racchiuda in sé una grande verità, la chiave di lettura per interpretare e varie raffigurazioni di quello che dall’Ottocento in poi diventa un tema centrale nell’arte e nella letteratura: il paesaggio urbano.
La città assume nuove dimensioni e nuovo rilievo, ma quello che emoziona non è soltanto la geometria dei suoi palazzi, e nemmeno il groviglio di strade che la compone, ma sono le illusioni e gli ideali che le metropoli contemporanea incarna. Vorrei procedere con ordine, iniziando da un punto di partenza che è il miraggio a cui tutte le città tendono: la Parigi della metà dell’Ottocento, che Hausmann e Napoleone III devastano e allo stesso tempo trasformano in ville lumière, con i suoi boulevards ed il trionfo dei luoghi della borghesia.

Qui il positivismo prende piede, nel momento in cui finalmente ci si trova davanti una città di cui andare fieri, con tanto di fognature, scarichi per l’acqua, strade lastricate e vetrine illuminate. Finalmente passeggiare per le vie diventa un piacere oltre che un’occupazione, tra il profumo di caffè e l’intrattenimento del teatro.
Quindi ecco che Gustave Caillebotte ci racconta l’immagine di una città che non perde il suo smalto nemmeno sotto la pioggia, lasciando trapelare un orgoglio che oggi quasi ci riempie di ossequiosa invidia. Poi però il tempo passa e arriviamo al terribile crollo di questa fiducia prima inossidabile, nel momento in cui ci si rende conto che la realtà non segue le rosee aspettative, che i controsensi sono sempre più forti.
E allora ci si aggrappa strenuamente alla chimera del progresso industriale, dell’avanzare della modernità come fine e non come mezzo per arrivare al benessere. In Italia l’emblema di questa esasperazione è il Futurismo, che ci propone una città in cui si elimina tutto ciò che è borghese e a misura d’uomo, vedendo la città come un’insaziabile macchina per l’avanzamento di una nazione sbruffona e guerrafondaia.

La prima guerra mondiale se non altro ha l’unico pregio di zittire i futuristi, lasciando però spazio ad un profondo e logorante senso di estraneità.
Il povero essere umano si rifugia oltre la realtà, non riuscendo più ad identificarsi nel vuoto culturale e intellettuale di una città inquinata dai fascismi. Ed ecco che Giorgio De Chirico diventa la voce di questa triste epoca storica, o più che la voce posso dire che sia l’occhio ammutolito.
Nei suoi numerosissimi paesaggi urbani in effetti fornisce l’immagine di una città geometrica e deserta, silente e maestosa, ma allo stesso tempo inaccessibile a qualsiasi forma di contatto.

Potrei proseguire con altri esempi, ma in fondo mi sembra che la storia si ripeta, senza grandi cambiamenti, se si va sotto la superficie delle cose.
Dopo la seconda guerra mondiale la ricostruzione si pone infatti come un nuovo positivismo, sicuramente più contemporaneo e ferito, ma che anche questa volta non raggiunge le aspettative e si lascia dietro tanta insoddisfazione.
E allora si arriva all’esasperazione e al caos più totale, superando ogni limite e arrivando a questi anni Zero (e ormai Dieci) che ci rendono di nuovo estranei, persi in quest’aria di crisi che non è solo economica ma anche interiore ed endemica.