Non so se sono di parte perché a noi piace molto la Polonia, ma quasi tutti i miei poeti contemporanei preferiti sono polacchi. Avevamo già parlato di Wisława Szymborska e di Czesław Miłosz, entrambi relativamente famosi, così oggi vorreiparlarvi un po’ di un poeta polacco meno conosciuto, Adam Zagajewski.
Prima delle poesie, tutte nella traduzione di Krystyna Jaworska, se siete interessati potete trovare due righe sulla vita dell’autore.
Chi è Adam Zagajewski?
Adam Zagajewski nasce nel 1945 a L’vov (attuale Leopoli, in Ucraina), ma non ci rimane a lungo: la sua famiglia, infatti, viene costretta, insieme a molte altre famiglie polacche tra il 1944 e il 1946, a trasferirsi nella Polonia centrale. Cresce e studia nella città di Gliwice prima, a Cracovia poi.
Insegna filosofia all’università e pubblica alcune poesie, ma si schiera pubblicamente contro la propaganda comunista e questo fa sì che le sue opere vengano messe al bando. Nel 1982 si trasferisce a Parigi; tornerà a vivere in Polonia solo vent’anni dopo.
A oggi è considerato uno dei più grandi poeti contemporanei polacchi ed è stato più volte candidato al Nobel.

La città in cui vorrei abitare
È una città silenziosa al crepuscolo,
quando pallide stelle riprendono i sensi,
e a mezzogiorno sonora per le voci
di ambiziosi filosofi e mercanti
che hanno portato velluti dall’Oriente.
Vi ardono i fuochi delle conversazioni
non certo i roghi.
Le vecchie chiese, le pietre muscose
di antiche preghiere sono la sua zavorra
e il suo razzo diretto verso il cosmo.
È una città imparziale
che non condanna gli stranieri,
una città che rapida ricorda
e lentamente scorda,
che tollera i poeti e perdona ai profeti
la mancanza di humour.
È una città eretta
in base ai preludi di Chopin,
da cui ha preso solo la gioia e la tristezza.
Un largo anello di colline
la circonda; vi crescono
i frassini campestri e il pioppo slanciato
che è il giudice del popolo degli alberi.
Un fiume vivace che vi scorre in mezzo
notte e giorno sussurra
saluti incomprensibili
delle sorgenti, delle montagne, del cielo.
Non trovate bellissima questa descrizione, un po’ realistica e un po’ – purtroppo – utopistica? Uno dei motivi per cui mi piace molto Zagajewski è che descrive con grazia e fantasia aspetti della vita e oggetti anche banali.

Ciò che
Ciò che pesa troppo
e trascina in basso
che fa male come il dolore
e brucia come uno schiaffo,
può essere pietra
o àncora.
Non sono sicura di aver capito a pieno il senso di questa poesia, ma credo che sia che ciò che ci tira a fondo può anche salvarci, che forse a volte la sofferenza può affondarci ma anche ancorarci – come a dire che il dolore è anche un’àncora alla vita, perché di fronte ad esso si può reagire in due modi: lasciarsi sopraffare e chiudere le porte all’esistenza, oppure amarla di più proprio perché ci rendiamo conto del suo valore.

A maggio
Camminando nel bosco, in un’alba di maggio,
chiedevo, dove siete, anime
dei morti. Dove siete, giovani
scomparsi, dove siete, ormai del tutto
mutati.
Un grande silenzio regnava nel bosco
e udivo le foglie verdi sognare,
udivo i sogni della corteccia da cui nascono
barche, navi e vele.
Poi a poco a poco gli uccelli si fecero
sentire, cardellini, tordi e merli nascosti
nei balconi dei rami; ognuno parlava a suo modo,
con voce diversa, senza chiedere nulla, senza
amarezza o rimpianto.
E capivo che voi siete nel canto,
inafferrabili come la musica, indifferenti come
le note, lontani da noi quanto noi
da noi stessi.
Credo che sia una domanda che si sono posti tutti prima o poi: dove vanno a finire le anime dei morti?
Ovviamente nessuno conosce la risposta, ma io trovo molto bella quella che ci dà Zagajewski: sono nel canto degli uccelli, nella voce della natura, in un luogo non fisico dove la vita esiste solo per sé stessa, senza pensare e senza sottostare a nulla.

All’alba
All’alba dai finestrini del treno vedevo città
disabitate, spopolate dal sonno,
aperte e indifese come grandi
animali sdraiati sul dorso.
Per le vaste piazze camminavano
solo i miei pensieri e un vento freddo,
sulle torri perdevano i sensi bandiere di lino,
nelle chiome degli alberi si svegliavano gli uccelli,
nelle folte pellicce dei parchi scintillavano
occhi di gatti selvatici,
nelle vetrine dei negozi si specchiava
la timida luce del mattino, eterno debuttante,
le giostre, finalmente assorte,
pregavano il loro invisibile centro,
i giardini fumavano come le rovine di Varsavia,
e alle mura brune del macello
ancora non era arrivato il primo camion.
All’alba le città non sono di nessuno,
non hanno nomi
e neppure io ho un nome,
sul far del giorno, quando svaniscono le stelle
e il treno corre sempre più veloce.
Io trovo bellissima l’immagine in apertura di questa poesia: devo dire che ci ho pensato spesso, da quando l’ho letta, e con un po’ di fantasia mi sembra davvero che certe città, dai finestrini del treno, al mattino presto sembrino dei grandi animali addormentati a pancia in su 😸
A parte questo, in generale anche qui mi piace molto la capacità descrittiva di questo poeta, che senza usare termini o costrutti troppo difficili riesce a dipingere un quadro vividissimo e a raffigurare in modo molto poetico una scena di per sé normalissima.

La bandiera
La mattina mi sveglio e cerco di appurare
con l’aiuto di un binocolo da teatro
quale bandiera sventoli sulla mia città
nera, bianca o grigia come il terrore,
se la mia città è già stata conquistata
o ancora si difende, se implora
la clemenza dei vincitori oppure
porta il lutto per alcuni secondi
di oblio, o forse io stesso sono
la bandiera solo che non so
vederla, così come non vediamo
il nostro cuore.
Da questo testo è chiaro il rapporto complesso di questo poeta con la sua patria, anche se non è nominata – una città che può essere una città qualsiasi, sovietica o polacca, la sua o un’altra, in fondo poco importa: quello che conta di più secondo me è il senso di straniamento, di confusione, il non conoscere chiaramente cosa si pensa né chi si è.
