Salvatore Quasimodo e Alfonso Gatto: l’Ermetismo in 3 poesie

Molto spesso, pensando all’Ermetismo una delle prime cose che vengono in mente è Ed è subito sera, la famosa poesia di Quasimodo che spesso si studia a memoria a scuola e che recita così:

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

Si tratta sicuramente di un testo emblematico, ma l’Ermetismo è un movimento molto più ampio e complesso. Oggi vi propongo tre poesie, precedute – se qualcuno fosse interessato a ripassare o ad approfondire – da un breve inquadramento di questa corrente letteraria.


La poetica dell’Ermetismo

L’Ermetismo è una corrente poetica che si sviluppa in Italia, soprattutto a Firenze, in un periodo di tempo abbastanza breve: generalmente i suoi inizi si fanno risalire al 1932, anno di pubblicazione della raccolta Oboe sommerso di Quasimodo, e la fine del movimento coincide più o meno con la caduta del Fascismo (a partire dal 1943 inizia a diffondersi una tendenza completamente opposta, quella neorealista).

In origine il termine Ermetismo aveva una connotazione negativa, dovuta al fatto che i testi erano troppo ardui, difficili da capire, volontariamente oscuri.

Gli esponenti più noti dell’Ermetismo sono Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto e, un po’ più tardi, Mario Luzi. Gli ermetici avevano sicuramente presente la lezione di Sentimento del tempo, una raccolta poetica della fase matura della produzione di Giuseppe Ungaretti, che però – pur anticipando certi temi e certe caratteristiche – non si può definire appartenente all’Ermetismo.

rené magritte-la pagina bianca

I poeti ermetici crearono un vero e proprio canone poetico, le cui caratteristiche fondamentali sono:

  • forte distacco dalla realtà (bisogna anche tener conto che al tempo la realtà in Italia era il fascismo, e l’unico modo per non aderire all’ideologia di regime era quello di proclamarsi il più possibile estranei ad ogni ideologia): la poesia era vista come lo scopo più nobile dell’esistenza e l’esistenza doveva incentrarsi su di essa, ignorando le contingenze storiche e gli aspetti quotidiani e pratici della vita;
  • largo uso dell’analogia (sulla scia del Simbolismo), figura retorica che consiste nell’accostare due elementi che apparentemente non sono collegati, senza esplicitare la ragione per cui sono stati accomunati; spesso è molto difficile rintracciare un legame logico, perché gli accostamenti avvengono in maniera estremamente arbitraria: si tratta di un tentativo del poeta di esprimere un suo sentimento per immagini invece che con parole. In sostanza è una figura retorica non così diversa dalla metafora, ma il motivo per cui viene impostato il paragone è meno ovvio e più soggettivo.
    Per cercare di chiarire questo concetto, che non è facile, prendiamo questo verso di Pascoli, da L’assiuolo: il cielo nuotava in un’alba di perla. Il procedimento analogico è questo: Pascoli vede l’alba che si espande nel cielo, il modo di espandersi gli ricorda quello di un’onda, sembra quasi che il cielo vi si ritrovi immerso. Tutto ciò è difficile da esprimere a parole, soprattutto è molto lungo e, scritto in questo modo, perde ogni poesia. Invece, condensato in un verso, risulta un po’ ostico a prima vista, ma è più bello;
  • i temi privilegiati sono spesso tristi, c’è una sensazione di solitudine e difficoltà a comunicare e su tutto domina l’interiorità del poeta;
  • rarefazione lessicale: la tendenza è quella di ridurre il numero di parole, privilegiando quelle con maggiore carica evocativa, e di isolarle sintatticamente, eliminando spesso i nessi grammaticali;
  • largo uso dell’endecasillabo.
René Magritte, La tempesta, 1931
René Magritte, La tempesta, 1931

Salvatore Quasimodo, Autunno



Autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d’alberi e d’abissi.
 
Aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:
 
povera cosa caduta
che la terra raccoglie.

Come già anticipato, alla pubblicazione della raccolta Oboe sommerso di Quasimodo, a cui appartiene questo testo, si fa risalire il vero e proprio inizio dell’Ermetismo. Le poesie di questa raccolta sono caratterizzate, in generale, da uno stile molto elaborato, con molte analogie – spesso molto criptiche, come nel caso di questa poesia.

Uno dei temi di questo testo e dell’intera raccolta è il disagio esistenziale del poeta, in parte dovuto alle contingenze storiche (affermarsi del regime fascista, impossibilità di esprimersi liberamente), in parte alla situazione personale e alle inclinazioni malinconiche del suo animo – quella che, in un altro testo, Quasimodo definisce la mia tristezza d’albero malnato.

Non a caso, infatti, il poeta sceglie di identificarsi con l’autunno, anche se, in qualche modo, la poesia permette una sorta di ritorno all’innocenza, un distacco dalla realtà.

René Magritte, La ricerca dell'assoluto, 1960
René Magritte, La ricerca dell’assoluto, 1960

Salvatore Quasimodo, Oboe sommerso

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.
Un òboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;
in me si fa sera:
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.
Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,
e i giorni una maceria.

Anche in questo caso il frequente uso di analogie rende molto difficile l’interpretazione, poiché, appunto, la base degli accostamenti è estremamente soggettiva.

La poesia comincia con la descrizione di un momento di attesa e di assenza della persona a cui il poeta si rivolge; ad un certo punto si sentono le note di un oboe. Probabilmente l’oboe, che dà il titolo all’intera raccolta, rappresenta la poesia; si tratta però di un oboe sommerso (un po’ come il porto sepolto di Ungaretti): la fonte della poesia è lontana ed irraggiungibile, il poeta può tentare di scavare per arrivare a trovare la parola che meglio possa esprimerne il senso, ma non può colmare la lontananza da un mondo per sempre perduto – nel caso di Quasimodo, i mondi perduti sono almeno due: quella della terra natìa, la Sicilia, e quello dell’infanzia.

Il suono dell’oboe ricorda la gioia di qualcun altro e il poeta si sente più triste, come se sentisse ancora più aspro il contrasto con quello che gli manca: il risultato è che si sente come un gerbido, un terreno brullo ed incolto, e i giorni sono macerie di qualcosa che forse era o forse potrebbe essere stato, ma che sicuramente non è più.

René Magritte, La ricerca dell'assoluto, 1950 circa
René Magritte, La ricerca dell’assoluto, 1950 circa

Alfonso Gatto, Parole

«Ti perderò come si perde un giorno
chiaro di festa: – io lo dicevo all’ombra
ch’eri nel vano della stanza – attesa,
la mia memoria ti cercò negli anni
floridi un nome, una sembianza: pure,
dileguerai, e sarà sempre oblio
di noi nel mondo.»
Tu guardavi il giorno
svanito nel crepuscolo, parlavo
della pace infinita che sui fiumi
stende la sera alla campagna.

Cambia il poeta, ma non cambia molto il tono: anche qui predomina una tristezza impossibile da sconfiggere, in questo caso collegata all’implacabile scorrere del tempo.

Il poeta, infatti, contrappone alla gioia dell’incontro con una donna, a lungo atteso, un’improvvisa sensazione di infelicità, dovuta alla percezione della durata effimera di ogni cosa e dell’inevitabilità della perdita.

Per smorzare un po’ i toni, però, la poesia si conclude con un’immagine placida, seppur anch’essa caratterizzata da tinte un po’ cupe: la pace infinita della sera, che si stende su alberi e prati e sembra possa da una parte confortare, ma dall’altra concorrere a portare il temuto oblio.