Io trovo che ci siano dei testi che, appena li si legge, abbiano la capacità di colpire immediatamente e di arrivare dritti al cuore, così come certi quadri, appena li si guarda, riescono ad arrivare subito in profondità.
Un esempio, per lo meno per me, è la poesia che vi vorrei proporre oggi, scritta da un poeta polacco che a me piace moltissimo, Adam Zagajewski. Questo poeta ha il dono di scrivere versi limpidissimi, con una forma non difficile, ma al contempo molto poetica e aggraziata. Più che per il suono e la forma, però, questo testo in particolare a me ha colpita per quello che trasmette, l’idea del dolore che ciclicamente ritorna ed è sempre diverso, ma anche sempre uguale.
Credo che non siano necessari ulteriori commenti, vi riporto il testo di seguito e spero che lo troviate immediato e significativo come lo ho trovato io.
Adam Zagajewski, I profughi
Piegati da un peso
che non sempre si vede
avanzano nel fango o nella sabbia del deserto,
chini, affamati,–
uomini di poche parole dai pesanti caffettani,
adatti a tutte le stagioni,
donne vecchie dai volti sciupati
che portano qualcosa, un neonato, una lampada
– un ricordo – oppure l’ultimo tozzo di pane.
Può essere la Bosnia, oggi,
la Polonia nel settembre ’39, la Francia
otto mesi più tardi, la Turingia nel ’45,
la Somalia, l’Afghanistan o l’Egitto.
C’è sempre un carro, o almeno un carretto,
colmo di tesori (il piumino, la tazza d’argento
e il profumo di casa che presto svanisce),
un’auto senza benzina abbandonata nel fosso,
un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,
troppa neve, troppo sole, troppo pioggia,
e quel caratteristico curvarsi,
come verso un altro pianeta, migliore,
con generali meno ambiziosi,
meno cannoni, meno neve, meno vento,
meno Storia (purtroppo un simile pianeta
non esiste, resta solo il curvarsi).–
Trascinando i piedi,
vanno lentamente, molto lentamente,
verso il paese da nessuna parte,
verso la città nessuno,
sul fiume mai.