Cosa scrivere ad un amico che se n’è andato? ‘In memoria’ di Ungaretti

Vassily Kandinskij, Composition 6.

Pensando a tutt’altro, l’altro giorno mi è venuta in mente una poesia di Giuseppe Ungaretti, molto bella anche se molto triste – ma da queste parti le cose tristi non perdono mai il loro fascino 😉

Questa poesia è scritta in memoria del compianto amico arabo Moammed Sceab, morto suicida in Francia perché non riusciva a riconoscersi in nessuna identità: non era più arabo come i suoi avi, ma non era nemmeno francese. Cerca una nuova patria in Francia, ma non la trova e resta sospeso tra le proprie origini, ormai abbandonate e rifiutate, e un nuovo mondo che lui non accetta pienamente o che non accetta lui.

Io non posso fare a meno di chiedermi quanti, in quest’epoca in cui le persone sono costrette a migrare, ad arrivare in un continente che non è il loro e ad affrontare abitudini che non sono le loro, si sentano persi nel mondo – come Moammed Sceab. Il problema dell’identità, unito ai problemi molto più prosaici legati alle necessità della sopravvivenza, deve essere un peso enorme per chi si ritrova a dover fare i conti con un universo che gli è estraneo e a cui fondamentalmente non importa nulla di lui. Io trovo che la condizione di chi si ritrova a metà tra una patria abbandonata e una non trovata sia espressa benissimo in questa poesia, che nonostante sia stata scritta un secolo fa rimane molto attuale.

Giuseppe Ungaretti – In memoria

Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo 
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora 
che visse

Al contrario di Ungaretti, Sceab non ha saputo sciogliere il canto del suo abbandono: non ha saputo trasformare il proprio dolore in poesia e la poesia non l’ha salvato. Il tema della crisi di identità e dello sradicamento è presente in molte poesie di Ungaretti, che spesso si definisce un nomade, ma la differenza è che lui, al contrario dell’amico morto, ha trovato il modo di trasformare la propria condizione in canto.

Ungaretti parla dell’amico anche in un’altra poesia, Chiaroscuro, che in una redazione precedente a quella definitiva contenuta ne L’Allegria recita così:

Mi è venuto a ritrovare il mio compagno arabo
che si è suicidato
che quando m’incontrava negli occhi
parlandomi con quelle sue frasi pure e frastagliate
era un cupo navigare nel mansueto blu
È stato sotterrato a Ivry
con gli splendidi suoi sogni
e ne porto l’ombra

Nella loro tristezza, io trovo questi versi bellissimi: in poche parole Ungaretti tratteggia in maniera incredibilmente vivida la persona che non c’è più ed esprime limpidamente il dolore inimmaginabile di chi si trova ad affrontare la vita con un amico in meno e un peso in più – il peso del ricordo degli splendidi suoi sogni svaniti e del dolore di chi resta.