In occasione della festa della Liberazione, oggi vorrei condividere con voi due poesie di Giuseppe Ungaretti. La prima non riguarda proprio la ricorrenza di oggi, ma a suo modo la trovo pertinente, se vi interessa il discorso ho scritto sotto perché, se no – visto che sono stata un po’ prolissa perché questo è un tema che mi è particolarmente caro – se avete poco tempo andate direttamente alla fine per leggere la poesia dedicata ai morti della Resistenza.
Giuseppe Ungaretti, Non gridate più
Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
–
Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescer dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
Qualche tempo fa sui muri di un frequentatissimo sottopassaggio di Torino era comparsa un’enorme scritta che recitava I partigiani sono morti invano. Non so se ci sia ancora perché è un bel po’ che non passo di lì, ma sul momento mi aveva colpita, in parte perché non è il genere di frase che ci si aspetta di vedere scarabocchiata per la città, in parte perché è un triste pensiero che a volte anche a me è passato per la testa.
Già, perché gli ideali della Resistenza e della Costituzione, il meglio che la nostra sfasciatissima Italia abbia prodotto forse in tutta la sua storia millenaria, a vedere la nostra società di oggi davvero sembrano spariti. Quando vedo il numero preoccupante di voti a partiti di estrema destra in Austria, Svizzera, Germania, Danimarca etc. – per non parlare del nostro Salvini – e sento discorsi come ‘chiudiamo le frontiere e lasciamo fuori gli immigrati’, mi sembra che il mondo si sia dimenticato molto in fretta.
I ventenni di settant’anni fa hanno consapevolmente scelto di rischiare, e molto spesso di sacrificare, la loro vita perché i ventenni di oggi la spendano a guardar passare il mondo senza curarsene? Ora, io per lavoro sto costantemente a contatto coi ragazzi e so che non si può fare di tutta l’erba un fascio, ci sono quelli che passano la loro esistenza attaccati a un qualche schermo e non hanno mai visto un telegiornale, ma per fortuna ci sono anche quelli che capiscono l’importanza di certe cose.
Quello che però una volta quasi non esisteva e che è un male più diffuso al giorno d’oggi è l’apatia, l’intorpidimento mentale. Se io dovessi indicare quale secondo me è il problema dei nostri tempi direi che è questo: l’assenza di interesse, il rimbecillimento generale di una società in cui le personalità più in vista di solito rasentano la demenza. E non voglio suonare moralista, per come la vedo io nella vita ci deve essere il posto per cose leggere e divertenti – ed è un diritto sacrosanto di tutti rilassarsi e staccare il cervello – però la vita non può essere fatta solo di quello.
Comunque, a vedere lo stato in cui versa la politica da noi, capisco perché il tempo degli ideali politici è finito e mi viene in mente una frase tristemente profetica di Joseph Roth, che a inizio Novecento parlava di un futuro disumano e tecnicamente perfetto, i cui emblemi sono aeroplano e football e non falce e martello. Lungi da me esaltare il comunismo, ma almeno quello era un ideale.
Detto ciò, perdonatemi la divagazione, mi sono allontanata parecchio da quello che voleva essere il nucleo di questo articolo – cioè la poesia di Ungaretti.
Giuseppe Ungaretti, Per i morti della Resistenza
Qui
Vivono per sempre
Gli occhi che furono chiusi alla luce
Perché tutti
Li avessimo aperti
Per sempre
Alla luce
Direi che c’è poco da aggiungere, la poesia si commenta da sola. Per concludere, mi piacerebbe condividere con voi una pagina di uno dei miei libri preferiti e che è secondo me il più grande libro italiano sulla Resistenza, cioè Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Il protagonista, come si evince dal titolo, è un partigiano, ma ho scelto un brano che parla non di battaglie, bensì della dignità e della grandezza che può avere l’animo umano.
I marmocchi dei casali stavano scivolando a volontà sulle rudimentali slitte da fieno. […] Scendevano in un baleno e poi lottavano un buon quarto d’ora per riguadagnare il ciglione, spendendo in grida, ansiti e fatica la loro prodigiosa riserva di fiato. Johnny sedette sulla neve e stette a guardarli, sapendo che non se ne sarebbe stancato presto. Da lassù poteva nettamente vedere il gigantesco anelare dei loro minuscoli toraci, l’esaltata roseità delle guance, l’incredibile nervità delle loro gambette in cimento con la neve e l’erba. E li amò come bambini, accettò quell’essere tanto giovani e così fuori dalla guerra, e sperò che essi dimenticassero poi rapidamente e totalmente quella guerra in cui avevano marginalmente scalpicciato coi loro piedi innocenti, augurò loro bene e fortuna in quel mondo di dopo che egli aveva tanto poche probabilità di dividere con loro. […]
Johnny guardò circolarmente i bambini in gioco e disse: – Qualunque cosa accada, badate a loro. Capito? E noi lasciateci al nostro destino. Pensate soltanto a loro. Non sentirete rimorso col tempo, state tranquilli.

Credo che non sia esagerato parlare di eroismo, anche se non voglio idealizzare i partigiani: come scrive Fenoglio, che partigiano lo è stato, i partigiani erano quello che erano, il fiore e la feccia, come sempre succede in tutte le formazioni volontarie. Nessuno è perfetto, nell’essere umano c’è tutto, il male e il bene, la luce e il fango, per dirla con parole di Steinbeck, ora come in tempo di guerra – anche se durante la guerra le circostanze hanno polarizzato la situazione: o eri partigiano o eri fascista, in mezzo c’era ben poco spazio per le sfumature. Il tempo di crisi ha saputo tirar fuori il meglio e il peggio, c’è stato chi torturava e chi si è messo in prima linea perché di fronte al male non poteva restare indifferente.
Sarà che ho sempre avuto tendenze ottimiste, ma nel nostro mondo vedo del buono – il che ovviamente non significa che il male non ci sia, ma io non credo che i partigiani siano morti invano, se onoriamo il loro sacrificio mantenendo vivo il loro insegnamento. Io penso a Johnny che guarda i bambini giocare e penso che noi abbiamo lo stesso dovere nei confronti dei bambini di oggi. Abbiamo un’incredibile eredità morale e con essa un dovere, e quel dovere è ricordare e onorare quelli che, per permettere a noi di avere la libertà di fare quello che vogliamo col nostro tempo, hanno sacrificato il loro – a testa alta, in mezzo al dolore e alla disperazione, con l’unico conforto di aver scelto la parte giusta.