L’amore secondo Montale: i Mottetti (I)

Si possono scrivere poesie d’amore anche senza essere sdolcinati?

Uno dei più grandi stereotipi del mondo è proprio questo: che le poesie d’amore siano una di quelle cose melense riservate alle coppiette innamorate. In realtà, se dietro c’è la mano di un maestro come Montale anche la poesia d’amore può essere originalissima e per di più molto complicata. Montale non è sicuramente noto per essere un grande cantore dell’amore, ma una delle sue raccolte secondo me più belle è quella dei Mottetti, brevi poesie non di immediata comprensione (è un poeta sempre molto cervellotico, anche quando scrive d’amore), ma profondissime e affascinanti.

I Mottetti sono dedicati quasi tutti a Clizia, donna adoratissima che vive a tremila miglia di distanza e che è metà donna metà angelo, sulla scia della cara vecchia tradizione stilnovista, di cui Montale mantiene l’alto livello di astrazione, aggiungendo però alcuni nuovi elementi – inevitabili dati i circa sette secoli di scarto.

Eugenio Montale – Mottetto VIII

 

 

Ecco il segno; s’innerva
sul muro che s’indora:
un frastaglio di palma
bruciato dai barbagli dell’aurora.

 

Il passo che proviene
dalla serra sì lieve,
non è felpato dalla neve, è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene.

Quello che Montale ci descrive nella prima strofa è una specie di piccolo miracolo: l’ombra di una palma su un muro all’alba, l’ora in cui la luce è dorata e il giorno nasce, è un segno di Clizia – la cui esistenza è così vitale che anche il solo segno di lei sembra prendere vita, innervandosi sul muro. Come il segno si innerva sulla parete, così il passo di lei diventa sangue, quindi vita, nelle vene di lui.

alfons-mucha-invernoClizia esce dal caldo di una serra e attraversa il freddo di un giardino innevato, freddo che potrebbe minacciarla – per Montale il freddo e il ghiaccio sono spesso metafora di minaccia – eppure lei, pur camminando nel gelo, porta con sé la vita. Ogni suo passo nella direzione del poeta porta sangue nuovo nelle vene di lui e segna l’ingresso di una vita in una non-vita (Montale stesso dice di essere uno che vive solo al 5%). Anche se Clizia lascia un mondo caldo e protetto per attraversare il gelo, questo non influisce sulla sua vitalità, che anche di fronte alle minacce del mondo esterno non cede.

Il passo di lei è felpato, ma non dalla neve – che tutto può attutire, tranne la vitalità e la leggerezza di una giovane donna – bensì dal ricordo: il suono riemerge dal passato, risale da dentro, in modo quasi miracoloso, riportato alla memoria del poeta dall’associazione con la sagoma della palma nella luce dell’alba.

Montale riprende questa immagine bellissima del passo che porta la vita anche in un’altra poesia, L’orto, in cui scrive: il tuo passo che fa pulsar le vene. Di nuovo, il battere del passo di Clizia che si dirige verso di lui porta la vita come fa il cuore pompando il sangue nelle vene.

Non sembra anche a voi che questa immagine sia vividissima e che bastino poche parole ben scelte ad evocare un quadro molto complesso e sfaccettato? Questo è quello che mi piace della poesia in generale e di questa in particolare.


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