Qualche tempo fa, in questo post, avevamo cominciato a parlarvi di una famosa poesia di T.S. Eliot, dal titolo “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock” – titolo un po’ fuorviante perché poi, in realtà, si parla non di amore ma di tutt’altro. Siccome si tratta di un testo insolitamente lungo per i nostri standard, lo avevamo diviso a metà; di seguito trovate la seconda parte.
Per riprendere brevemente il filo, la prima metà della poesia, che è il lungo monologo di un uomo di mezz’età, chiamato appunto Prufrock, narra l’indecisione e l’incapacità del protagonista di adattarsi alla società ed inserirsi in essa; per lui è difficile uscire dalla propria solitudine, così come è difficile trovare il coraggio di agire, come racconta anche nei versi che trovate di seguito.

Direi, ho camminato al crepuscolo per strade strette
Ed ho osservato il fumo che sale dalle pipe
D’uomini solitari in maniche di camicia affacciati alle finestre?…
Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli
Che corrono sul fondo di mari silenziosi.
L’immagine del granchio che corre sul fondo del mare dà un’impressione di come Prufrock si senta, o forse di come vorrebbe essere: una creatura solitaria, che corre sul fondo buio degli abissi, protetta da un guscio, irraggiungibile.
. . . . . . . . . . . . .
E il pomeriggio, la sera, dorme così tranquillamente!
Lisciata da lunghe dita,
Addormentata… stanca… o gioca a fare la malata,
Sdraiata sul pavimento, qui fra te e me.
Potrei, dopo il tè e le paste e i gelati,
Aver la forza di forzare il momento alla sua crisi?
Ma sebbene abbia pianto e digiunato, pianto e pregato,
Sebbene abbia visto il mio capo (che comincia un po’ a perdere i capelli) portato su un vassoio,
Io non sono un profeta – e non ha molta importanza;
Ho visto vacillare il momento della mia grandezza,
E ho visto l’eterno Lacchè reggere il mio soprabito ghignando,
E a farla breve, ne ho avuto paura.
In questa strofa è un po’ più difficile trovare una spiegazione del significato. All’inizio, accenna a come il tempo sia passato, è terminata l’ora del tè ed è arrivata la sera, anch’essa (come la nebbia in precedenza) personificata.
Poi, apparentemente senza seguire una logica precisa, Prufrock mette bene in chiaro la propria mediocrità: nonostante, come i profeti nella Bibbia, abbia pianto, digiunato e pregato, e nonostante abbia visto il suo capo portato su un vassoio (fine che fece la testa di Giovanni Battista), lui non è un profeta, principalmente perché ha avuto paura di fronte alla morte – cioè l’eterno Lacchè (il lacchè era una specie di maggiordomo che, appunto, reggeva il cappotto a chi entrava da qualche parte).
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Dopo le tazze, la marmellata e il tè,
E fra la porcellana e qualche chiacchiera
Fra te e me, ne sarebbe valsa la pena
D’affrontare il problema sorridendo,
Di comprimere tutto l’universo in una palla
E di farlo rotolare verso una domanda imbarazzante,
Di dire: “Io sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti,
Torno per dirvi tutto, vi dirò tutto” –
Se qualcuno, mettendole un cuscino sotto il capo,
Dicesse: “Non è per niente questo che volevo dire.
Non è questo, per niente.”
Uno degli aspetti più difficili nella lettura di Eliot è che inserisce molte citazioni e, senza il contesto, questo rende la comprensione tutt’altro che immediata. In questo caso, il riferimento a Lazzaro rimanda ad una parabola, il cui protagonista non è il più noto Lazzaro di Betania (quello che era risorto grazie a Gesù Cristo), ma un omonimo mendicante lebbroso che, una volta morto, va in Paradiso. L’altro protagonista della parabola, un ricco che invece era finito all’Inferno, chiede ad Abramo che Lazzaro possa tornare in vita per avvisare i suoi fratelli, perché non vuole che facciano la sua stessa fine. Abramo poi non accetta, ma la parte che interessa a noi finisce qui.
In sostanza, in questa strofa Prufrock nomina una domanda imbarazzante (anche se non ci dice quale sia) e si chiede se varrebbe la pena darsi tutto questo da fare, tollerare la tortura dei pomeriggi nei salotti, compiere lo sforzo enorme – che per lui è un’impresa come risorgere dal mondo dei morti, o comprimere l’universo intero in una palla – di formulare questa domanda, probabilmente rivolta ad una donna, quando il rischio è che lei gli risponda che lui l’ha fraintesa.
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Ne sarebbe valsa la pena,
Dopo i tramonti e i cortili e le strade spruzzate di pioggia,
Dopo i romanzi, dopo le tazze da tè, dopo le gonne strascicate sul pavimento
E questo, e tante altre cose? –
E’ impossibile dire ciò che intendo!
Ma come se una lanterna magica proiettasse il disegno dei nervi su uno schermo:
Ne sarebbe valsa la pena
Se qualcuno, accomodandosi un cuscino o togliendosi uno scialle,
E volgendosi verso la finestra, dicesse:
“Non è per niente questo,
Non è per niente questo che volevo dire.”
. . . . . . . . . . . . .
No! Io non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo;
Io sono un cortigiano, sono uno
Utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due,
Ad avvisare il principe; uno strumento facile, di certo,
Deferente, felice di mostrarsi utile,
Prudente, cauto, meticoloso;
Pieno di nobili sentenze, ma un po’ ottuso;
Talvolta, in verità, quasi ridicolo –
E qualche volta, quasi, il Buffone.
Amleto è il personaggio che incarna l’indecisione, tratto che sembrerebbe accomunarlo a Prufrock, il quale però ne prende le distanze: afferma di non essere il Principe Amleto, perché a lui manca la statura tragica del personaggio di Shakespeare. Anche qui, come nel caso dei profeti sopra, Prufrock rimarca la propria mancanza di grandezza.
Divento vecchio… divento vecchio…
Porterò i pantaloni arrotolati in fondo.
Dividerò i miei capelli sulla nuca? Avrò il coraggio di mangiare una pesca?
Porterò pantaloni di flanella bianca, e camminerò sulla spiaggia.
Il tempo passa senza che Prufrock abbia avuto il coraggio di porre la sua domanda ed è come se la vita gli sembrasse sempre più difficile: per lui sono un peso anche le decisioni più semplici e persino un atto semplice come mangiare una pesca suscita in lui timori.
Ho udito le sirene cantare l’una all’altra.
Non credo che canteranno per me.
Le ho viste al largo cavalcare l’onde
Pettinare la candida chioma dell’onde risospinte:
Quando il vento rigonfia l’acqua bianca e nera.
Ci siamo troppo attardati nelle camere del mare
Con le figlie del mare incoronate d’alghe rosse e brune
Finché le voci umane ci svegliano, e anneghiamo.
La mia interpretazione della conclusione è che le sirene rappresentino un po’ il sogno ammaliatore, il richiamo irraggiungibile della superficie luminosa per uno che si sente più vicino ad un granchio dei fondali: infatti le sirene non cantano per lui. Come fa con tanti altri aspetti della vita, lui le guarda da lontano e ne ammira la bellezza, le vede vivere come in sogno – finché l’illusione non si rompe, a causa delle voci umane che lo riportano alla realtà, e lui annega, probabilmente in senso metaforico: annaspa in cerca d’aria perché il mondo e la società in cui vive lo asfissiano.
Per capire la portata della novità di una poesia come questa, dobbiamo pensare che è stata pubblicata nel 1911, quando il mondo era ancora ottimista, non era stato ancora sconvolto dalle guerre e in Europa andavano di moda correnti come il Decadentismo e l’Estetismo.
Eliot si inserisce in una corrente, quella del Modernismo, che tratta temi esistenziali e molto più problematici: è con testi con questo che alle certezze del secolo precedente viene dato il colpo di grazia, per lasciare spazio alle grandi domande e, soprattutto, all’impossibilità di trovare risposte e all’inevitabile senso di fallimento che caratterizzano gran parte della poesia moderna.
