Il rischio che il mondo esterno possa ferirci è una ragione sufficiente per tagliare tutti i ponti ed evitare di averci a che fare? Ecco cosa ci dice al riguardo il poeta Dylan Thomas.
Dylan Thomas, Orecchie nelle torrette ascoltano
Orecchie nelle torrette ascoltano
Mani borbottano alla porta,
Occhi nelle mansarde vedono
Le dita sui lucchetti.
Dovrei aprire la porta o restare
Solo fino al giorno della mia morte
Nascosto a occhi stranieri
In questa casa bianca?
Mani, portate grappoli o veleni?
Al di là di quest’isola delimitata
Da un mare sottile di carne
E una costa d’ossa,
La terra giace fuori dal suono,
E le colline fuori dalla mente.
Nessun pesce volante né uccello
Disturba la quiete di quest’isola.
Orecchie in quest’isola ascoltano
Il vento passare come un fuoco
Occhi in quest’isola vedono
Navi ancorate al largo della baia.
Dovrei correre alle navi
Col vento nei miei capelli,
O restare fino al giorno della mia morte
E non accogliere nessun marinaio?
Navi, portate grappoli o veleni?
Mani borbottano alla porta,
Navi stanno all’ancora al largo della baia,
La pioggia picchia sulla sabbia e sull’ardesia.
Dovrei lasciar entrare lo straniero,
Dovrei accogliere il marinaio,
O restare fino al giorno della mia morte?
Mani dello straniero e stive delle navi,
Portate grappoli o veleni?
In tutto il testo c’è una sensazione di inquietudine che serpeggia, di controllo ossessivo: il narratore si è rinchiuso su un’isola di cui ha il pieno controllo, ma segnali del mondo di fuori balenano tutto intorno – cioè, se vogliamo vederla come una metafora, si è trincerato nel proprio cervello e tiene il conto di ogni minimo avvenimento esterno senza avere però il coraggio di esserne coinvolto, anche se è impossibile chiudere del tutto fuori il mondo.
Il protagonista si trova così isolato e paralizzato di fronte a una scelta: osare, uscire, rischiare ed incontrare? Oppure restare dentro la bianca dimora della propria mente in cui è tanto facile sentirsi sicuri? Sarebbe facile deciderlo se sapessimo in anticipo cosa ci riserva la sorte, se sapessimo se le mani dello straniero portano doni o minacce, grappoli o veleni. Ma non lo sappiamo e il rischio è il prezzo da pagare per scoprirlo.
L’autore si è rifugiato in un’isola – che può appunto essere una vera isola o una metafora per dire che ha scelto la solitudine, il proprio io, senza voler rischiare di uscire da sé stesso e incontrare gli altri – ma non si tratta di un’isola felice: non è una breve fuga dal mondo in una lussureggiante isola tropicale, ma un posto freddo e triste, con un mare di carne, una costa di ossa e il vento che soffia come un rogo, che suggeriscono un’idea di desolazione e di morte.
Si è segregato in questo posto e non ci dice perché: in questo modo rende possibile immedesimarsi nella sua situazione a chiunque, come lui, abbia scelto volontariamente di ritirarsi dal mondo, di rinchiudersi tra la mura della propria mente.
Non c’è una conclusione definitiva, nessun dubbio viene sciolto: l’alternativa – tra una corsa spensierata, col vento tra i capelli, verso le navi e i messaggeri del mondo di fuori, e una volontaria esclusione dall’esterno fino alla morte – non trova risposta perché non c’è risposta alla domanda con cui si chiude la poesia. Non c’è modo di sapere sei il destino riservi doni o crudeltà senza assumersi il rischio di andare a scoprirlo in prima persona.
Devo dire che io di solito pendo molto dalla parte dell’ “andiamo a vedere!”, quindi non mi è molto facile immedesimarmi nel narratore, eppure in questa poesia c’è qualcosa che mi piace molto. Non è un inno al rischio, ma mi fa pensare che sia sempre meglio rischiare che rinchiudersi in una sterile isola pur di stare tranquilli 😉