Pensando agli Stati Uniti del dopoguerra, degli anni Cinquanta e Sessanta per intenderci, a voi cosa viene in mente per prima cosa?
A me saltano agli occhi le stampe di Andy Warhol, nonostante la superficialità apparente, perché a loro modo sono lo specchio della società in cui si inseriscono, di quell’America che si vede nei film.
Si può parlare di arte se si pensa alla Pop Art?
Domanda difficile, ma per me la risposta è sì. Come ho già cercato di raccontarvi (ve lo siete perso? Ecco il link: Perché dopo il 1945 l’arte abbandona l’Europa?), dopo il 1945 qualcosa della magia dell’arte si incrina e si corrompe, così gli artisti non possono più permettersi di vivere nel loro bozzolo dorato fatto di idee astratte.
E Warhol, padre ed emblema della Pop Art, per me è il primo esempio di questo cambiamento inesorabile e irreversibile. Scende a patti con il mondo e diventa il testimonial di quello che è il suo innovativo e provocatorio modo di fare arte: sfruttare la società contemporanea in cui la comunicazione di massa rivoluziona i pensieri di tutto il pianeta.
Ritrae le grandi icone, le utopie e i miti del sogno americano, trasformandole senza grande sforzo in anonime copie tutte uguali, destinate a perdere la loro identità. Rappresenta e critica silenziosamente l’universo patinato di cui allo stesso tempo è indubbiamente un protagonista.

Chi invece riesce a seguire queste premesse e condurle in tutt’altra direzione è un altro artista, uno dei geniali e maledetti artisti morti giovani per cui ho un debole, Keith Haring.
Dove conduce il pensiero di Keith Haring?
La grande differenza con Warhol, il passo avanti se vogliamo definirlo così, è il cambio di scenario. Haring non è il personaggio che cerca le copertine delle riviste, che rappresenta il mondo glamour e che si fa avanti sui social media, ma piuttosto è il ragazzo che si fa arrestare perché non riesce proprio a non dipingere sui muri.
Si tratta di un artista che non riesce a risparmiarsi o a pianificare la fama e il successo. Al contrario, è uno che vive intensamente, che si butta a capofitto nei graffiti e nello scompiglio della New York di quegli anni disastrati e magici allo stesso tempo.
E tutta questa libertà, insieme agli eccessi di cui si nutre, viene pagata a caro prezzo: nel 1990 (poco prima che io nascessi, accidenti!) muore a trentun’anni di AIDS. Eppure è questa stessa intensità che ha dato a Keith Haring una così grande importanza.
In effetti il suo merito non è soltanto quello di avere contribuito al rinnovamento del mondo dell’arte e al riconoscimento del valore dei graffiti, ma è anche quello di avere avuto un ruolo nella diffusione di tematiche sociali e culturali: ha partecipato alla lotta all’HIV, ai movimenti per la pace e per i diritti degli omosessuali e al desiderio di rinascita dei quartieri degradati della città, per citarne alcuni.



Insomma, più ci penso e più mi convinco ddi una cosa: Keith Haring ha sfruttato il linguaggio popolare e leggero della Pop Art per diffondere idee e pensieri più profondi e delicati. Non siete d’accordo con me?
Di sicuro era in sintonia con il maestro da imitare, come dimostrano questa foto e quest’opera:


In conclusione, mi scuso per l’eccessiva sintesi, ma questi giorni sono piuttosto caotici! Prometto che dopo Natale mi rifarò 😉