La Memoria, Quasimodo e il mondo di oggi: pensieri alla rinfusa

In concomitanza con la ricorrenza del Giorno della Memoria, è inevitabile che la nostra attenzione si focalizzi sulle tragedie del passato, il cui ricordo deve essere sempre vivo – per come la vedo io, il ricordo è un dovere etico e civile. Allo stesso tempo, però, non posso fare a meno di pensare che, mentre ci impegniamo a ricordare le peggiori tragedie della storia, la realtà in cui viviamo sia sì diversissima, ma non poi così significativamente migliorata.

Senza andare tanto lontano nel mondo, basta guardare il nostro povero Mediterraneo: tanto per fare un esempio recente ma tutt’altro che unico, il nostro governo chiude i porti e 49 poveri cristi passano 19 giorni a bordo di una nave perché nessuno li vuole. Ovviamente gli orrori della Shoah sono tutt’altra cosa, ma se c’è una cosa che la storia ci dovrebbe insegnare è di non guardare dall’altra parte di fronte al dolore di un altro – tanto più che non ha senso una classifica delle tragedie: la sofferenza è sofferenza.

Nel mondo ci sono soprusi in numero tale che forse è proprio la loro stessa quantità a renderli invisibili: le ingiustizie sono troppo perché si possa occuparsi di tutte, tanto più quando non ne siamo direttamente responsabili, quindi di fronte ad una mole così soverchiante molto spesso l’atteggiamento è quello di accantonarla e pensare ad altro – perché tanto cosa ci possiamo fare?

Un tentativo di risposta a questa domanda sta in un bellissimo intervento di David Grossman, che – commentando Se questo è un uomo – allarga il discorso alla realtà contemporanea in un’ottica che io condivido. Si tratta di un testo abbastanza lungo, ma se avete un attimo di tempo vale la pena di leggerlo (online io l’ho trovato solo qui).

Il mio intento oggi non è assolutamente quello di moralizzare o criticare, le cose stanno come stanno e sono perfettamente consapevoleche a parole si risolve ben poco. Più che altro queste considerazioni sono sorte spontanee mentre cercavo di scrivere un’introduzione ad un testo famosissimo, Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo, che – anche se in maniera obliqua – trovo sia adeguato alla ricorrenza di questi giorni.


Salvatore Quasimodo, Alle fronde dei salici

 

 

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

 

Quasimodo scrisse questa poesia durante la Seconda guerra mondiale, mentre il nord Italia era occupato dai nazisti – loro è il piede straniero sopra il cuore, loro la colpa delle sofferenze elencate: neanche l’erba evoca più la natura e la primavera, ma rimanda alla morte.

La spiegazione del significato dei versi finali va ricercata in un Salmo, il 136 (conosciuto anche come Canto dell’esule), che Quasimodo cita e che comincia così:

Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
 Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
“Cantateci i canti di Sion!”
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
george frederic watts, speranza, 1886
George Frederic Watts, Speranza, 1886

In questo testo un esule ebreo in Babilonia piange la distruzione della propria patria e rifiuta di cantare i canti del suo popolo, perché sono canti di gioia, e non c’è gioia alcuna nella loro vita in seguito alla deportazione: pertanto appendono le loro cetre ai salici, che tra l’altro simboleggiano il dolore.

Io trovo che sia la poesia di Quasimodo sia il Salmo abbiano la capacità di raffigurare con poche parole il profondo dolore di un popolo, e – per tornare al discorso iniziale – per me pensare alle tragedie del passato vuol anche dire pensare alle tragedie del presente.

È vero che non è colpa nostra, ma mai come nella nostra era al mondo ci sono stati squilibri così gravi e mai come oggi una parte della popolazione mondiale si è trovata a vivere in condizioni di vantaggio simili a quelle in cui ci troviamo noi. Viviamo talmente bene che forse è proprio per questo che, io per prima, tendiamo spesso a dimenticarci del fatto che non è così per tutti, che non è sempre stato così nemmeno qui e che il nostro benessere attuale è figlio delle sofferenze delle generazioni che ci hanno preceduti – sofferenze che, senza cadere nel patetico, Quasimodo testimonia in modo vividissimo.

Quindi va bene, ricordiamo tutto, è giusto farlo – oltretutto io penso sia giusto farlo sempre, non solo in un certo periodo dell’anno -, però bisogna anche ricordarsi della nostra realtà (e soprattutto sarebbe bello che se lo ricordasse chi prende le decisioni per noi), perché io penso che sia un po’ la stessa cosa che nei confronti del passato: anche se non possiamo cambiare niente, il pensiero ha un valore etico in sé.

Non mi ricordo più dove, ma tempo fa ho letto da qualche parte una frase (purtroppo ho dimenticato di chi 😅) che diceva più o meno questo: se un uomo si fa carico della sofferenza di un altro uomo, anche solo provando compassione per lui, la quantità totale di dolore nel mondo sarà aumentata, ma lo sarà anche la quantità di umanità.