Tra le poesie di Cesare Pavese le più famose sono probabilmente quelle d’amore, in parte per la loro bellezza, in parte perché, soprattutto le ultime, sono strettamente collegate alla tragica scelta del suicidio. In futuro vorrei parlare anche di queste, ma oggi vi vorrei proporre tre poesie tratte dalla prima raccolta di Pavese, Lavorare stanca.
Si tratta di uno dei libri più significativi della prima metà del Novecento – in genere quando si pensa ai libri di letteratura si tende a concentrarsi sulla narrativa e probabilmente i testi in prosa di Pavese sono più noti, ma anche le sue poesie sono degne di attenzione. Lavorare stanca comprende una serie di poesie che si possono definire poesie-racconto: con uno stile personalissimo, elaborato negli anni e quanto più possibile oggettivo, Pavese narra storie e descrive scene di vita con un tono che è simile a quello di un racconto.
Questa è una scelta stilistica consapevolmente controcorrente. In un periodo (anni Trenta) in cui in Italia la scelta di tendenza era l’Ermetismo, la poetica di Pavese è per molti aspetti all’opposto: invece della concisione, della densità tematica e dell’oscurità, in questi testi, spesso molto lunghi, il significato è immediatamente comprensibile e i personaggi sono tratteggiati con un forte realismo.
Di seguito trovate tre poesie che secondo me sono tra le più belle, seguite da una breve analisi. Il testo della prima è molto lungo, ma si legge in fretta 🙂
1. I mari del Sud
Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino…”
mi ha detto “…ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.
Vent’anni è stato in giro per il mondo.
Se n’andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
uomini, più gravi, lo scordarono.
Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.
Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono così”.
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma uscì ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
“Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza”.
Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno
scrivo sul manifesto: – Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo – e che la dicano
quei di Canelli”. Poi riprende l’erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena: e io penso alla forza
che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta
da fuochista su un legno olandese da pesca, il Cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.
Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.
A detta dello stesso Pavese, questo testo, che apre Lavorare stanca, è il suo primo tentativo di poesia-racconto.
Il dialogo con il cugino avventuriero, tornato dopo aver trascorso vent’anni in giro per il mondo, fa tornare in mente a Pavese i giochi dell’infanzia, quando anche lui, a modo suo, correva dei rischi e viveva delle avventure – mentre ora, in città, i rischi che vive sono ben altri: si può intuire che parli di qualche sogno infranto.
Entrambi se ne sono andati dalle Langhe – Pavese vedeva il mondo contadino a cui appartenevano come opprimente, l’unica alternativa per liberarsi del peso delle proprie radici era la fuga, ma questa è accompagnata da un alto prezzo da pagare. Per Pavese questo prezzo è una sorta di estraneità: la vita nella città trascorre tra solitudine, paure e straniamento. Per il cugino è il fallimento: il suo piano di comprare tutto il bestiame per costringere i contadini a comprargli le macchine fallisce – la gente non vuole cambiare, così come in fondo non è cambiato lui (il dialetto che parla è ancora lo stesso). Nonostante l’impresa non portata a termine, il cugino è un uomo pragmatico; si concentra sul lavoro e di tutto quello che ha visto e vissuto gli è rimasta solo una suggestione fortissima: la caccia alle balene – un tema che per Pavese probabilmente ha acquisito dimensioni mitiche dopo la lettura e la traduzione di Moby Dick.
Entrambi risultano in qualche modo sradicati, come molti altri personaggi di Pavese, che lottano contro l’impossibilità di restare e al contempo di andarsene.

2. Agonia
Girerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene
è un risveglio che mai nel mattino ho provato
così vero: soltanto, mi sento più forte
che il mio corpo, e un tremore più freddo accompagna
il mattino.
Son lontani i mattini che avevo vent’anni.
E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,
ne ricordo ogni sasso e le striscie di cielo.
Da domani la gente riprende a vedermi
e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi
e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,
ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo
di esser io che passavo – una donna, padrona
di se stessa. La magra bambina che fui
si è svegliata da un pianto durato per anni:
ora è come quel pianto non fosse mai stato.
E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore – perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.
Quello che si immagina leggendo il testo di questa poesia è che la ragazza protagonista, il giorno prima di compiere ventun anni, abbia una sorta di risveglio interiore e si riprometta di scuotersi di dosso tutte le brutte esperienze che le sono successe fino a quel momento.
Non sappiamo cosa le sia capitato – il titolo suggerisce un periodo di sofferenza, interiore e magari anche esteriore – ma i suoi propositi sono chiari: riprendere il controllo, uscire di casa, guardarsi, essere vista, affrontare la vita e cercarne i colori. Indipendentemente da quello che può esserle accaduto prima, io trovo che questo manifesto sia un inno bellissimo alla dignità e alla determinazione.
3. Lo steddazzu
L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquío.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.
Il titolo di questa poesia, posta alla fine di Lavorare stanca, è un termine in dialetto calabrese che ha il significato di ‘grossa stella’ e fa riferimento a Venere.
Il protagonista è descritto mentre, prima dell’alba, compie una serie di gesti banalissimi – che sono però un pretesto per sollevare domande ben più profonde: lo scorrere del tempo, scandito dal levarsi e tramontare del sole, fa riflettere sul senso dell’esistenza stessa, in balia di questa alternanza priva di significato.
Il tono è abbastanza cupo: a nessuna di queste domande si può rispondere e forse una risposta non esiste, se non che un senso non c’è. Di fronte al tempo che scorre c’è poco da fare, se non procedere con le proprie abitudini, che in qualche modo possono fornire un conforto – la giornata può anche apparire cupa e senza speranza, ma bisogna affrontarla lo stesso. Il protagonista vive un giorno inutile, non può farci nulla, non può controllare l’andamento della vita, che vede passare quasi rimanendo al di fuori: l’unica cosa che può fare è accendersi la pipa e cercare di andare avanti.
Probabilmente il testo riflette lo stato d’animo di Cesare Pavese, che mentre lo ha scritto si trovava al confino in Calabria (accusato da un tribunale fascista): la vita prosegue, che ci piaccia o no, che le si trovi o meno un senso, per cui tanto vale accettarlo e mettersi l’anima in pace, trovando un minimo di sollievo nella ripetizione di attività quotidiane, che, nella loro banalità, in qualche modo ci definiscono.
