Derek Walcott e la morte di un bambino: come reagire alla cosa più triste del mondo?

Joan Miro, Blu (II) Joan Miro, Blu (II)

Tra due giorni ricorre l’anniversario della morte di Derek Walcott, uno dei maggiori poeti del Novecento, insignito con il premio Nobel nel 1992. Mi piacerebbe ricordarlo con i versi che lui stesso ha scritto in occasione della morte del nipotino – credo che non esista al mondo niente di più triste della morte di un bambino, eppure in qualche modo Walcott è riuscito a scrivere una poesia che offre una sorta di consolazione, in primo luogo alla sua famiglia, ma anche a chiunque altro la legga.

Derek Walcott, Per Adrian (14 aprile 1986)

a Grace, Ben, Judy, Junior, Norline, Katryn,
Gem, Stanley, e Diana

Guardate, e vedrete che i mobili stanno svanendo,
che un armadio è incorporeo quanto un tramonto,
che posso guardare attraverso di voi, la trama delle vostre foglie,
la luce dietro le vene; perché singhiozzate ancora?
– 
I giorni scorrono come polvere tra le dita della luce,
o di un bambino nella sabbia. Quando vedete le stelle
 
scoppiate a piangere? Quando guardate il mare
non vi si riempie il cuore? Pensate che la vostra ombra
 
possa estendersi quanto il deserto? Sono un bambino, ascoltate,
non ho invitato né inventato gli angeli. È facile
 
essere un angelo, parlare adesso di là dai miei otto anni,
avere maggiore autorità virginale, e sapere,
perché ora sono dentro una saggezza, non un silenzio.
Perché vi manco? Voi non mi mancate, sorelle, nemmeno
 
Judith, la cui chioma trionfa come il manto di un leopardo
nell’orgoglio del suo giovane portamento, né Katryn, né Gem
 
seduta in un angolo del suo dolore, né mia zia, quella
con gli occhi teneri che hanno calmato chi adesso vi scrive,
 
non vi spezzerei mai il cuore, e dovreste saperlo;
non vi farei mai soffrire, e dovreste saperlo;
 
e neanch’io sto soffrendo, ma è difficile saperlo.
Sono più saggio, partecipo al segreto che è solo un silenzio,
assieme ai tiranni della terra, all’uomo che impila stracci
su un carro scricchiolante, e scompare dietro l’angolo
 
di una piazza al tramonto. Contate male i miei anni,
non sono giovane ora, né vecchio, non un bambino, né una gemma
 
recisa prima che fiorisse, faccio parte del muscolo
di un leone al galoppo, o di un uccello in volo radente
 
su canne buie; e ciò che nel vostro dolore, nei nostri volti
che urlano come statue, chiamate un addio
è – vorrei che mi ascoltaste – un benvenuto diverso,
che condividerete con me, e vedrete che è vero.
 
Tutto questo il bambino ha detto dentro di me, e io l’ho scritto.
Come se la sua tomba che si chiude fosse il sorriso della terra.

Penso che ogni commento sia superfluo. Si tratta della forma di lutto più grave che possa colpire una famiglia, eppure – nonostante il dolore dei parenti e dell’autore, che si riesce a percepire benissimo pur essendo noi estranei – io trovo che ci siano in questa poesia una forma di speranza e una profondità che possono riguardare tutti noi.