Uno dei motivi per cui adoro il ritorno dell’inverno è che le città dopo l’estate sembrano riprendere vita, si passa dal caldo mezzo deserto di agosto alle sere bellissime di novembre, tra luci già mezze natalizie e gente imbacuccata e indaffarata. A me capita in queste serate di perdermi per la città, soprattutto quando sta tramontando il sole e cambiano i colori; ho sempre pensato che quasi niente abbia il potere terapeutico di una bella camminata senza meta per le vie di una città, che sia la mia o un’altra poco importa: quello che conta è che perdendo la strada di solito i miei pensieri si mettono in ordine.
Sembra pensarla come me anche il poeta Iosif Brodskij (San Pietroburgo, 1940 – New York, 1996), uno dei più illustri esuli russi, protagonista di un processo in patria divenuto tristemente famoso come esempio dell’assurdità della repressione del regime sovietico, vincitore del Nobel nel 1987, nonché nemesi di Eduard Limonov (Limonov è una figura quantomeno discutibile che recentemente la fortunata biografia di Carrère ha portato alla ribalta e per la quale chiunque abbia letto il libro non può che provare almeno un po’ di ammirazione, anche se – per quanto mi riguarda – non sufficiente a farmi cambiare opinione su Brodskij).
Brodskij è sempre stato fortemente affascinato dall’Italia, in primo luogo da Venezia, a cui ha dedicato alcune pagine stupende, ma anche da altre città. Di seguito vi riporto il testo di una poesia che appartiene alla raccolta Elegie romane.
In questi vicoli stretti, dove ingombra
anche il pensiero di sé, in queste circonvoluzioni
di un cervello che ha smesso di pensare al mondo,
dove, infiacchito o in preda a eccitazione,
sposti le scarpe nelle piazze, da una fontana
a una fontana, da una chiesa a un tempio
– così va ciabattando sul disco la puntina,
dimenticando di fermarsi al centro –,
ci si può rassegnare alla frazione miseranda
della vita che resta e al passato che anela
alla finitezza, a una parvenza
d’integrità. Il suono della suola
sulla terra è della loro unione armonica
melodia, serenata che al futuro
intona il tempo che fu, Caruso puro
per il cane fuggito dal grammofono.
Il poeta racconta dei propri vagabondaggi per i vicoli di una città sicuramente antica, tra chiese e templi, e il risultato di questi vagabondaggi è un momento di accettazione delle cose come stanno e di tranquillità dal pensare.

Non è una poesia facile e in realtà nemmeno io sono sicura di averla capita, ma ci sono due immagini bellissime, secondo me. La prima è l’idea che il suono dei passi sulla terra sia una serenata intonata al futuro dal passato. Il passo, cioè quanto di più presente esista, fa da tratto d’unione tra la vita passata e quella futura, ma non è un tramite indifferente, perché è attraverso il suo suono che il passato dimostra il proprio amore verso l’avvenire: la musica del passo è una serenata dal noi del giorno prima al noi che saremo domani, un atto d’amore piccolo, quotidiano, confortante, forse un modo di ricordare a noi stessi che dietro di noi ci sarà sempre qualcuno che ci guarda le spalle. Come a dire che esiste un collegamento sottilissimo tra il passato e il futuro e questo collegamento è l’amore che portiamo a noi stessi.
La seconda immagine è – ma questa forse è un’interpretazione un po’ azzardata – l’idea del cane fuggito dal grammofono. A me fa pensare ad una fuga da qualcosa di predestinato, come la puntina del grammofono che dimentica di fermarsi al centro: come se vagando senza meta per la città la mente si svincolasse dalle costrizioni quotidiane e riuscisse a sfuggire dal solco che, come la puntina, è costretta a percorrere, spezzando un circolo di giri sempre uguali. La colonna sonora di questa fuga è il suono delle suole sul terreno: un suono di per sé tutt’altro che speciale, ma è stato il loro vagabondaggio a permettere all’autore di svicolare dalla realtà e pertanto per l’orecchio di chi scrive creano una melodia meravigliosa.