Quando la scultura diventa astrazione: le opere e il pensiero di Fausto Melotti

Cosa succede dopo che l’Astrattismo (su cui ci siamo concentrati ultimamente) spalanca le porte ad un nuovo modo di concepire l’arte?

Ormai il velo dell’ombra è squarciato, mentre la Seconda guerra mondiale, con i suoi regimi totalitari e i suoi orrori, aleggia nel pensiero di chi l’ha vissuta (in qualunque modo) e non può dimenticarla.

Oggi cerchiamo la risposta a questa grande domanda in Italia e per la precisione nelle opere di Fausto Melotti, un artista che, seppure forse meno noto rispetto ad alcuni suoi contemporanei e conoscenti (come Lucio Fontana e Fortunato Depero), rappresenta perfettamente lo spirito della sua generazione, la ricerca che trova la risposta nella leggerezza, nell’astrazione e nella creazione di nuove realtà in cui per certi versi rifugiarsi.

Prima di perdermi in divagazioni teoriche, propongo di scoprire qualcosa di quello che ha fatto, per chi non l’avesse presente.

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Fausto Melotti, La Sequenza, 1981, attualmente presso Pirelli HangarBicocca (foto dal sito web ufficiale)

Prendiamo come esempio La Sequenza, una grande opera di Fausto Melotti pensata per il Forte del Belvedere di Firenze e attualmente collocata all’ingresso di Pirelli HangarBicocca a Milano, visibile per chiunque passi da quelle parti.

Si tratta di una composizione modulare realizzata su tre livelli di profondità, con un effetto ineffabile di linee, pieni e vuoti che arrivano ad evocare un volume, un insieme che potremmo quasi definire architettonico.

I materiali sono moderni: è infatti realizzata interamente in acciaio Corten, mentre la composizione è eterna, basandosi su una scansione ritmica suggerita dal mondo della musica e dai principi della geometria.

Allora, vi piace questa prima scultura? Io trovo che possieda una grande forza evocativa e che sia ulteriormente esaltata dalla posizione in cui si trova. Sperando che questa piccola premessa abbia raggiunto lo scopo di incuriosirvi, è il momento di tuffarci nell’approfondimento.

L’Astrattismo secondo Fausto Melotti

Fausto Melotti (1901-1986), ingegnere elettrotecnico e frequentatore dell’Accademia di Brera (in fondo al post trovate una sua breve biografia), nel 1935 firma il Manifesto per l’Arte astratta, in netta polemica con le tematiche di ritorno all’ordine in voga nel regime fascista ed espone nella galleria Il Milione di Milano, fulcro della ricerca artistica italiana in questa direzione.

Fausto Melotti, Scultura n. 14, 1935
Fausto Melotti, Scultura n°14 , 1935 (1968) Inox, Ed. 2/3, 100 x 35 x 28 cm. Collezione privata, Londra. Foto: Fondazione Fausto Melotti © Archivio Fausto Melotti

Stiamo dunque parlando di un vero e proprio astrattista e sperimentatore, che purtroppo in questa fase non viene apprezzato, incontrando la meritata fama soltanto negli anni Sessanta.

Per lui l’arte è una commistione tra geometria e lirismo, che trae ispirazione dalla musica e dal mondo circostante, percepito in maniera rarefatta e frammentata. In linea con quello che è il dibattito italiano (e non solo) del periodo, utilizza materiali meno nobili rispetto ai classici bronzo e marmo, come la ceramica, i metalli, i tessuti e le resine plastiche, assemblati mediante saldature o legature. Si tratta quindi di opere costruite a partire da elementi slegati, non scolpite o modellate.

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Opere di Fausto Melotti, dagli archivi di Domus – https://www.domusweb.it/it/dall-archivio/2015/07/06/fausto_melotti_sculture_astratte_del_35_e_del_62.html

Sarebbe poi riduttivo limitarsi a definirlo unicamente come scultore, perché Fausto Melotti è un teorico ed un artista a tutto sesto, ovvero anche pittore e musicista. Dopotutto, lui stesso si descrive con queste parole:

Quando creo, non ho un piano preordinato: il processo creativo resta per me misterioso. Spesso parto con l’idea di realizzare una scultura e finisce che faccio un disegno, o viceversa.

Fausto Melotti e Le città invisibili di Italo Calvino

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Le copertine Oscar Mondadori delle opere di Calvino (da una ricerca su Google immagini)

Ci sono pensieri destinati ad intrecciarsi, percorsi (artistici e umani) che si incrociano e influenzano: quando li riconosciamo ci lasciano un’impressione di completezza, un senso di ordine e di equilibrio.

Per me, un caso emblematico è quello del filo rosso che lega le sculture di Melotti con le Città invisibili di Calvino, un libro che è senza dubbio tra i miei preferiti e che – per chi non lo conoscesse – descrive con uno straordinario potere evocativo una serie di città inventate, attraverso gli immaginari resoconti di Marco Polo a Kublai Kan. Non a caso, le bellissime copertine degli Oscar Mondadori di questo autore sono caratterizzate dalla riproduzione di sculture di Fausto Melotti: ci avete mai fatto caso? Io devo dire che subisco il loro fascino da ben prima di conoscere il loro creatore!

Così, ho scelto di concludere questo post dedicato all’astrazione e alla leggerezza con le parole di Calvino, che nella sua vita è sempre stato un frequentatore delle mostre d’arte e che è stato indubbiamente affascinato e ispirato dalle sculture melottiane, come spiega lui stesso:

I segni vanno comunque tenuti alti: senza nessuna prosopopea, con la leggerezza, l’attenzione, l’industriosa ostinazione dei palafitticoli. Era verso il regno delle palafitte che il viaggiatore­ – e non da ieri ­- muoveva i suoi trampoli: solo habitat possibile per i secoli immediatamente prossimi. Apprendere da Melotti che l’infinito s’avvolge su se stesso a spirale autorizza d’altronde a una certa confidenza con lo spazio e col tempo”. 

 

Italo Calvino, I segni alti (per Fausto Melotti),
in Saggi II, Mondadori 1995
C’è stato un momento in cui dopo aver conosciuto lo scultore Fausto Melotti, uno dei primi astrattisti italiani, che solo nella vecchiaia è stato scoperto e valutato secondo il suo merito, mi veniva da scrivere città sottili come le sue sculture: città su trampoli, città a ragnatela». 

 

Italo Calvino, Romanzi e racconti II, Mondadori 1992

Come ci insegna in Lezioni americane, Calvino considera la leggerezza un grande valore. In Le città invisibili ci sono città tristi e città assurde, città felici, città della memoria, e poi ci sono le città sottili, che sono il regno della leggerezza e della fantasia. La mia preferita è la descrizione di Ottavia, che riporto di seguito per chi fosse curioso:

Ora dirò come è fatta Ottavia, città-ragnatela. C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’intravede più in basso il fondo del burrone.
Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d’elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d’acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.
Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge.

Mi è sempre piaciuta questa idea della consapevolezza di vivere su un abisso. In fondo, le città non sono che un tentativo di mettere ordine nel caos trionfante della natura, di domare l’ambiente e di piegarlo ai nostri bisogni, ma il nostro pianeta era ricoperto di foreste centinaia di migliaia di anni prima della comparsa dei primi agglomerati, e tornerà ad esserlo se questi spariranno.

Quello che non mi piace di certe città è la pretesa di dominare in maniera incontrastata e noncurante sul mondo che le circonda – questo non vuol dire che io non ami le città, anzi, ma quello che trovo affascinante di esse è il loro spirito, quello che in modo inspiegabile rende ogni città unica e diversa dalle altre, però per coglierlo bisogna andare un po’ oltre la superficie.

Un po’ come nelle sculture di Melotti, in cui sembra rimanere soltanto il segno, lo scheletro di un’idea levigata all’infinito – qualcosa di simile a quello che Kublai Kan intravedeva nei racconti di Marco Polo:

Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.


Per concludere, come promesso vi lascio una breve biografia di questo artista, insieme al link al sito della Fondazione Fausto Melotti, dove potrete trovare qualcosa in più su di lui.

Chi era Fausto Melotti (1901-1986)?

Fausto-Melotti-Senza-titolo-1958-©-Fondazione-Fausto-Melotti-Milano.-Courtesy-the-Foundation-and-Hauser-Wirth
Fausto Melotti, Senza titolo, 1958 © Fondazione Fausto Melotti, Milano. Courtesy the Foundation and Hauser & Wirth

Nasce nel 1901 a Rovereto, città appartenente in questo periodo all’Impero Austroungarico. Nel 1924 si laurea in ingegneria elettrotecnica, mentre nel 1928 si iscrive all’Accademia di Brera, che frequenta insieme a Lucio Fontana.

Nel 1935 firma il Manifesto per l’Arte astratta e aderisce al movimento Abstraction-Création, fondato a Parigi nel 1931 da Van Doesburg, Seuphor, Vantongerloo con lo scopo di promuovere e diffondere l’opera degli artisti non figurativi. Nello stesso anno tiene una personale presso l’avanguardista galleria milanese Il Milione, che non riscuote un grande successo, e partecipa ad una collettiva a Torino nello studio di Casorati e Paolucci.

Dal 1941 al 1943 vive a Roma e partecipa al progetto di Figini e Pollini per il Palazzo delle Forze armate; in questo periodo dipinge, disegna e compone poesie. Nel dopoguerra si dedica alla ceramica e inizia a godere di alcuni meritati riconoscimenti, come il Gran Premio della Triennale nel 1951, la medaglia d’oro di Praga e quella di Monaco di Baviera.

Nel 1967 si tiene una sua mostra presso la Galleria Toninelli di Milano, con molte sue sculture innovative. Si tratta della prima di una lunga serie di mostre in Italia e all’estero. Nel 1981 Firenze gli dedica una grande retrospettiva al Forte Belvedere: è qui che vediamo esposta la scultura La sequenza (di cui abbiamo parlato).

Muore a Milano nel 1986 e nello stesso anno la 42° Biennale di Arti Visive di Venezia gli conferisce il Leone d’oro alla memoria.