Quanto è forte il rischio di sprecare la nostra vita? La risposta di Eliot e Kavafis

Henri de Toulouse-Lautrec, Al Moulin Rouge

È possibile che, perdendo il contatto con lei, la nostra vita diventi un’estranea senza che noi ce ne accorgiamo?

È molto difficile, presi tra i mille impegni della vita quotidiana, trovare il tempo per riflettere su questioni come questa. Nessuno di noi normalmente ha tanto tempo per fermarsi a riflettere sull’andamento della propria vita – la vita scorre da sola, e molto in fretta, che noi ce ne preoccupiamo o no. Ed è qui che, per come la vedo io, ogni tanto la poesia serve: è un modo per prenderci cinque minuti per noi e fare due considerazioni su come stanno andando le cose, considerazioni che magari non ci verrebbero in mente senza ispirazione, come nel caso della poesia che vi propongo oggi.

Constantinos Kavafis, E se non puoi la vita che desideri

 

 

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.

 

trad. di Nelo Risi e Margherita Dalmati 

La poesia inizia con una considerazione sulla vita in generale: se non si riesce ad ottenere esattamente quello che si vuole, perché non sempre si può controllare ciò che succede, almeno possiamo controllare quello che non deve succedere.

In questo caso si tratta di un invito a non sprecare la vita in mezzo ad impegni sociali senza significato, a non svilirla trascorrendola soltanto in faccende da nulla (ci sono alcuni punti di contatto con quello che scrive Wisława Szymborska in una poesia di cui abbiamo parlato un po’ di tempo fa, che potete trovare qui).

Kavafis non propone nessuna alternativa, ma la possiamo immaginare: come ci vuole il tempo con gli altri così ci vuole anche il tempo da soli, facendo quello che veramente amiamo – solo così possiamo evitare che la nostra vita si trasformi in un’estranea sotto i nostri occhi.


A me questa poesia fa venire in mente alcuni versi de Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock di T. S. Eliot, una delle mie poesie preferite al mondo, in cui il protagonista lamenta l’inutilità della vita mondana, stanco di trascinarsi da un ricevimento all’altro – secondo lui le feste sono tutti uguali e gli sembra di averle già vissute tutte.

Perché già tutte le ho conosciute, conosciute tutte: –
Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi,
Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè;
Conosco le voci che muoiono con un morente declino
Sotto la musica giunta da una stanza più lontana.

Prufrock è la voce del disagio dell’uomo moderno sotto molti punti di vista, debole, paralizzato in una vita che si ripete sempre uguale a sé stessa e pieno di insicurezze che lo fanno costantemente dubitare di sé. In questo caso però a me interessa questo: Prufrock dice di aver dosato la propria vita con cucchiaini da caffè, come a intendere che piano piano, pomeriggio dopo pomeriggio, ricevimento dopo ricevimento, ha sprecato qualche granello della propria esistenza, un po’ alla volta, fino a ritrovarsi in una situazione di intorpidimento e indifferenza, in cui non c’è più niente di nuovo e non gli importa più di nulla. 

Il taglio di Eliot – che in primo luogo ha scritto sulla solitudine – è ben diverso da quello di Kavafis, si tratta di un testo molto più complesso e profondo, ma in comune c’è questo: l’idea che la vita non vada spesa solo negli impegni quotidiani, sociali o lavorativi che siano, e che oltre ad una vita esteriore vada coltivata anche una vita interiore, per non rischiare di perdere il contatto con quello che siamo davvero.

Henri de Toulouse-Lautrec, al Moulin Rouge
Henri de Toulouse-Lautrec, Al Moulin Rouge